Vi propongo l’articolo che D’Agostino ha pubblicato su Avvenire di oggi, 14 Novembre Avallata l’eutanasia senza il coraggio di chiamarla per nome. L’argomento è intuibile: la decisione della Cassazione sul caso Englaro.
Dal titolo già si può capire dove D’Agostino vuole arrivare.
In poche parole, i magistrati hanno avallato l’eutanasia, senza avere il coraggio di chiamarla con il suo nome. Non è vero che il caso Eluana sia riconducibile al legittimo rifiuto di un trattamento sanitario: alimentare un malato non è sottoporlo a un ‘trattamento’, ma prendersi cura di lui, in una forma simbolica ben più alta di quella stessa della medicina.
E continua con:
Né va sottaciuto il fatto che, con la sua decisione, la Cassazione ha contribuito a offuscare il concetto, già in sé estremamente complesso, di accanimento terapeutico, inducendo l’opinione pubblica a ritenere ciò che non è, cioè che l’assistenza prestata a Eluana, per consentirle di sopravvivere, fosse futile, sproporzionata, indebitamente invasiva, caratterizzata dall’uso di tecnologie sofisticate. […] Ma forse l’esito più devastante di questa sentenza sarà quello simbolico: essa avallerà l’opinione aberrante secondo la quale la sospensione dell’alimentazione sarebbe giustificata dal fatto che, in quanto preda di uno stato vegetativo persistente, Eluana avrebbe perso la propria dignità. È un messaggio devastante, oltre che colpevolmente umiliante per i tanti altri malati in stato vegetativo (e per le loro famiglie). Nessuna malattia, nemmeno la più grave, può erodere la dignità dell’uomo, né sospendere i suoi diritti fondamentali o incrinare il suo diritto alla vita.
Guardiamo il primo argomento preso in considerazione da D’Agostino: alimentazione e idratazione non possono essere considerati trattamenti medici, ma pratiche di “cura” del paziente. Sospendere queste pratiche sarebbe giustificato, secondo D’Agostino, da una presunta perdita di dignità dal momento in cui Eluana è entrata in stato vegetativo permanente. Non c’è alcuna dignità andata perduta perché, scrive, nessuna malattia può erodere la dignità dell’uomo.
Chi, dunque, ha il diritto di decidere se una vita è degna di essere vissuta o meno?
E’ evidente che la posizione di D’Agostino rientra in quelle che hanno a proprio fondamento il concetto di sacralità della vita e di dignità della vita in sé, a prescindere da caratteristiche contingenti. In poche parole sembra che D’Agostino sia incline ad affermare che il paziente non sia padrone della propria vita, non ne possa disporre e, quindi, non possa decidere se la sua condizione sia degna o meno di essere vissuta.
E’ semplicistico rifiutare a priori di sospendere determinate pratiche, che siano definite mediche o meno, rifugiandosi nel principio di indisponibilità della vita.
Affermare che un soggetto non possa disporre della propria vita andrebbe contro ad ogni pratica quotidiana: in ogni minuto abbiamo la nostra vita nelle nostre mani e ne siamo responsabili, dobbiamo decidere per essa in base alle continue situazioni che incontriamo. Se ci aggrappassimo al pensiero che non siamo noi a disporre di essa, come pensate potremmo semplicemente “agire”? Poi, se non fossimo noi a disporne, chi dovrebbe farlo?
Argomentare parlando di “indisponibilità della vita” rischia di ritorcersi contro chi sostiene questo principio. Mantenere una persona in vita forzatamente non è disporre di una vita e ,per di più, altrui?
Veniamo ora alla seconda argomentazione usata da D’Agostino. Sospendere l’alimentazione e l’idratazione ad Eluana equivale a compiere un atto eutanasico. Sì, se si considera il termine eutanasia con il suo significato più proprio di “dolce morte”, ovvero una morte serena e consapevolmente accettata come naturale chiusura della vita. Questa tuttavia era una definizione dell’Antica Grecia. Al giorno d’oggi, invece, tale termine ha assunto il significato di “dare la morte”. Entra qui la distinzione tra uccidere e lasciar morire.
Se eutanasia è dare la morte, è eutanasia cessare alimentazione e idratazione, che altro non fanno che mantenere in vita senza altra prospettiva che il perdurare dello stato vegetativo? E’ dignitoso vivere, contro la propria volontà, solamente grazie ad un sondino?
Di nuovo si ritorna, per rispondere a ciò, al definire o meno la PEG come trattamento terapeutico.